NOBEL. Obama e la pace in Africa
09 ottobre 2009
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Le mosse della nuova amministrazione Usa nel continente, dal Sudan allo Zimbabwe alla Somalia
«Nessuno ha voglia di vivere in un Paese africano in cui regnano ferocia e corruzione. Questa non è democrazia, ma tirannia anche se qualche volta si va a votare. E tutto questo deve finire». E’ un passaggio del discorso di Barack Obama ad Accra (Ghana), durante il suo primo viaggio da presidente Usa in Africa, il 10 e 11 luglio. Parole che gli africani, i leader ma anche la gente comune, non accetterebbero così facilmente da un bianco, ma da uno come lui sì, come più di un vescovo africano ha fatto notare proprio ieri durante il Sinodo per l’Africa. «Più di ogni altro, e certamente più di ogni bianco, ha l’autorità di parlare con chiarezza ai nostri cattivi leader politici e dir loro che stanno rovinando il nostro Continente» ha detto ieri l’arcivescovo di Abuja, in Nigeria, mons. John Olorunfemi Onaiyekan, allineandosi alla fiducia espressa nei confronti di Barack da mons. Gabriel Charles Palmer-Buckle, arcivescovo, guarda caso, di Accra.
Le parole, quelle vanno bene. Ma cosa sta facendo Barack Obama per la pace in Africa? Uno dei cambiamenti di diplomazia più importanti rispetto all’amministrazione precedente è avvenuto quattro mesi prima del viaggio in Ghana, a marzo, con la nomina di Scott Gration, ex generale in pensione, a inviato speciale per il Sudan. Area nevralgica nel continente africano, quella sudanese. E questione scottante che la nuova amministrazione Usa ha dato l’impressione di voler affrontare subito, smarcandosi dall’approccio di George Bush.
Il primo successo Gration l’ha incassato alla fine di giugno quando Washington ha ospitato i colloqui fra Nord e Sud Sudan. Una conferenza alla quale hanno partecipato rappresentanti di Khartoum, del Splm (Sudan peoples’ liberation movement), dei cinque paesi membri del Consiglio di Sicurezza Onu e dei “vicini” Etiopia e Kenya. In quella riunione Karthoum e il Sud Sudan hanno raggiunto un accordo e accettato un arbitrato internazionale per l’assegnazione dei proventi del petrolio, del quale il sottosuolo sudanese è pieno, all’uno o all’altro governo. Il nodo da sciogliere prima del referendum del 2011 e delle elezioni nazionali dell’anno prossimo (in Sudan, ndr) - ha detto Gration in quell’occasione - è la distribuzione dei proventi del petrolio del Sud: il vero ostacolo alla pace che rischia di far saltare tutti gli accordi, infatti, è proprio quello. L’amministrazione Obama, insomma, ha riaperto il dialogo con il governo di Karthoum, quel Nord Sudan classificato da Bush fra gli Stati canaglia. Ha rinunciato a insistere sul termine “genocidio” rispetto alla guerra nell’Ovest del Paese, il Darfur. E in cambio il governo sudanese ha riaperto le porte del Darfur alle organizzazioni umanitarie, un risultato che ancora una volta Scott Gration ha incassato e rivendicato, insieme al nuovo ruolo degli Usa come mediatori tra Khartoum e tutti i suoi avversari, che non si trovano solo nella regione occidentale del Darfur ma anche nel Sud ricco di petrolio e in Ciad.
A rendere concreta la nuova linea degli Usa in Africa, Obama ha chiamato Susan Rice. Nota per il suo carattere intransigente e la sua sensibilità per i diritti umani, la neo segretaria di Stato agli Affari africani ha ricevuto il difficile compito di trasformare in realtà il desiderio di Obama di chiudere i conti con le politiche aggressive di Bush per privilegiare una politica estera incentrata sul dialogo. Durante la sua audizione di conferma del Senato, la Rice ha detto che gli Stati Uniti avranno un ruolo di primo piano presso le Nazioni Unite nella lotta contro le «spinose sfide del mantenimento della pace nel Darfur e nel Congo e la giustizia nello Zimbabwe».
All'inizio di luglio Obama ha incontrato a Washington Morgan Tsvangirai, primo ministro di uno Zimbabwe che sta faticosamente uscendo dall’impasse dopo le ultime contestate elezioni. Tsvangirai ha sempre rivendicato di essere il vero vincitore delle presidenziali, ma alla fine ha accettato di formare un governo con Robert Mugabe. Obama ha espresso «profonda ammirazione per la tenacia e il coraggio dimostrato» da Tsvangirai facendo capire a chiare lettere da che parte sta, e ha detto che era troppo presto per togliere le sanzioni imposte dal 2002 all'entourage di Mugabe, ma poi ha stanziato 73 milioni di dollari in aiuti allo Zimbabwe. Una spinta nei confronti del volto più democratico del Paese africano.
Ma il vero banco di prova di Obama in Africa è e resta la Somalia. Durante il suo viaggio di undici giorni in Africa, il segretario di stato Hillary Clinton ha visitato Kenya, Sudafrica, Angola, Repubblica democratica del Congo, Nigeria, Liberia e Capo Verde. In Kenya ha incontrato il presidente somalo Sheikh Sharif Ahmed garantendo supporto al suo governo assediato e nuove armi per combattere i gruppi di fondamentalisti islamici. Nel Paese che ospita Al Qaeda, parlare di pace è troppo difficile. Anche per Barack Obama.
Su vita.it: Obama e il Nobel
congratulations Mr. President.................................................Azim
09 ottobre 2009
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Le mosse della nuova amministrazione Usa nel continente, dal Sudan allo Zimbabwe alla Somalia
«Nessuno ha voglia di vivere in un Paese africano in cui regnano ferocia e corruzione. Questa non è democrazia, ma tirannia anche se qualche volta si va a votare. E tutto questo deve finire». E’ un passaggio del discorso di Barack Obama ad Accra (Ghana), durante il suo primo viaggio da presidente Usa in Africa, il 10 e 11 luglio. Parole che gli africani, i leader ma anche la gente comune, non accetterebbero così facilmente da un bianco, ma da uno come lui sì, come più di un vescovo africano ha fatto notare proprio ieri durante il Sinodo per l’Africa. «Più di ogni altro, e certamente più di ogni bianco, ha l’autorità di parlare con chiarezza ai nostri cattivi leader politici e dir loro che stanno rovinando il nostro Continente» ha detto ieri l’arcivescovo di Abuja, in Nigeria, mons. John Olorunfemi Onaiyekan, allineandosi alla fiducia espressa nei confronti di Barack da mons. Gabriel Charles Palmer-Buckle, arcivescovo, guarda caso, di Accra.
Le parole, quelle vanno bene. Ma cosa sta facendo Barack Obama per la pace in Africa? Uno dei cambiamenti di diplomazia più importanti rispetto all’amministrazione precedente è avvenuto quattro mesi prima del viaggio in Ghana, a marzo, con la nomina di Scott Gration, ex generale in pensione, a inviato speciale per il Sudan. Area nevralgica nel continente africano, quella sudanese. E questione scottante che la nuova amministrazione Usa ha dato l’impressione di voler affrontare subito, smarcandosi dall’approccio di George Bush.
Il primo successo Gration l’ha incassato alla fine di giugno quando Washington ha ospitato i colloqui fra Nord e Sud Sudan. Una conferenza alla quale hanno partecipato rappresentanti di Khartoum, del Splm (Sudan peoples’ liberation movement), dei cinque paesi membri del Consiglio di Sicurezza Onu e dei “vicini” Etiopia e Kenya. In quella riunione Karthoum e il Sud Sudan hanno raggiunto un accordo e accettato un arbitrato internazionale per l’assegnazione dei proventi del petrolio, del quale il sottosuolo sudanese è pieno, all’uno o all’altro governo. Il nodo da sciogliere prima del referendum del 2011 e delle elezioni nazionali dell’anno prossimo (in Sudan, ndr) - ha detto Gration in quell’occasione - è la distribuzione dei proventi del petrolio del Sud: il vero ostacolo alla pace che rischia di far saltare tutti gli accordi, infatti, è proprio quello. L’amministrazione Obama, insomma, ha riaperto il dialogo con il governo di Karthoum, quel Nord Sudan classificato da Bush fra gli Stati canaglia. Ha rinunciato a insistere sul termine “genocidio” rispetto alla guerra nell’Ovest del Paese, il Darfur. E in cambio il governo sudanese ha riaperto le porte del Darfur alle organizzazioni umanitarie, un risultato che ancora una volta Scott Gration ha incassato e rivendicato, insieme al nuovo ruolo degli Usa come mediatori tra Khartoum e tutti i suoi avversari, che non si trovano solo nella regione occidentale del Darfur ma anche nel Sud ricco di petrolio e in Ciad.
A rendere concreta la nuova linea degli Usa in Africa, Obama ha chiamato Susan Rice. Nota per il suo carattere intransigente e la sua sensibilità per i diritti umani, la neo segretaria di Stato agli Affari africani ha ricevuto il difficile compito di trasformare in realtà il desiderio di Obama di chiudere i conti con le politiche aggressive di Bush per privilegiare una politica estera incentrata sul dialogo. Durante la sua audizione di conferma del Senato, la Rice ha detto che gli Stati Uniti avranno un ruolo di primo piano presso le Nazioni Unite nella lotta contro le «spinose sfide del mantenimento della pace nel Darfur e nel Congo e la giustizia nello Zimbabwe».
All'inizio di luglio Obama ha incontrato a Washington Morgan Tsvangirai, primo ministro di uno Zimbabwe che sta faticosamente uscendo dall’impasse dopo le ultime contestate elezioni. Tsvangirai ha sempre rivendicato di essere il vero vincitore delle presidenziali, ma alla fine ha accettato di formare un governo con Robert Mugabe. Obama ha espresso «profonda ammirazione per la tenacia e il coraggio dimostrato» da Tsvangirai facendo capire a chiare lettere da che parte sta, e ha detto che era troppo presto per togliere le sanzioni imposte dal 2002 all'entourage di Mugabe, ma poi ha stanziato 73 milioni di dollari in aiuti allo Zimbabwe. Una spinta nei confronti del volto più democratico del Paese africano.
Ma il vero banco di prova di Obama in Africa è e resta la Somalia. Durante il suo viaggio di undici giorni in Africa, il segretario di stato Hillary Clinton ha visitato Kenya, Sudafrica, Angola, Repubblica democratica del Congo, Nigeria, Liberia e Capo Verde. In Kenya ha incontrato il presidente somalo Sheikh Sharif Ahmed garantendo supporto al suo governo assediato e nuove armi per combattere i gruppi di fondamentalisti islamici. Nel Paese che ospita Al Qaeda, parlare di pace è troppo difficile. Anche per Barack Obama.
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