sabato 26 gennaio 2008

CINQUE ANNI DI GUERRA



Darfur. Cinque anni di guerra
Luca Ferrari
sabato 26 gennaio 2008







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Il 27 gennaio è il giorno della memoria. Su queste stesse pagine, domani ci sarà un’editoriale del direttore del giornale, e non solo. Dappertutto verrà ricordato l’olocausto ebraico, e giureremo a noi stessi che non succederà più nulla del genere. Non avrei nulla da obbiettare se così non fosse stato. E se così non fosse. Una sola parola. Darfur. Il conflitto di questa regione, situata nel nord-ovest dello stato africano del Sudan, è iniziato nel febbraio del 2003. A scontarsi, il Fronte di Liberazione del Darfur (FLD) da una parte e il governo, insieme ai cavalieri Janjaweed, sostenuti militarmente (non in maniera ufficiale) dalla stessa autorità sudanese, dall’altra. In mezzo, tanti civili terrorizzati.Da allora, sono passati quasi cinque anni, e le stime, seppure non precise, parlano di circa quattrocentomila vittime, secondo i dati forniti dalla Coalition for International Justice. C’è chi ha parlato di genocidio, e sono subito iniziate polemiche, disquisizioni sull’uso più o meno improprio di questa parola. Ciò che restano però sono i morti. E sono molti.Attualmente, dopo infinite contrattazioni su una presenza internazionale o meno nella regione, l’UNAMID (la Forza delle Nazioni Unite in Darfur) è riuscita a sbarcare. Ma dopo tre settimane di operato, Amnesty International ha reso noto che la situazione della sicurezza per gli sfollati è ancora molto precaria.Gli sfollati sono “stranieri” in casa. Autoctoni che scappano dal regime di casa propria, ma che vivono ancora nella loro nazione di cui temono il governo (o il suo esercito, regolare e non). Nuove generazioni intanto stanno crescendo nell’inferno dei campi profughi, spesso per nulla privi di armi. Quale potrà essere il loro futuro?Partendo da queste considerazioni, Amnesty ha lanciato il suo nuovo rapporto “Sfollati in Darfur - Una generazione di rabbia”, in cui descrive l’attuale stato d’insicurezza nei campi profughi nell’area, le potenziali conseguenze e le possibili soluzioni.
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Nel rapporto si può apprendere di come la situazione della sicurezza dentro e fuori dai campi sia in continuo peggioramento. Come avvoltoi, i gruppi armati continuano a usare questi non-luoghi per reclutare nuovi combattenti, inclusi i bambini. E i politici intanto non producono nulla di concreto per una soluzione pacifica.Tragico, anche in chiave futura, ma realista, il commento di Tawanda Hondora, vicedirettore del Programma Africa di Amnesty International, che ha rimarcato come il benessere degli sfollati sia sempre ignorato, mentre i continui litigi le due fazioni in lotta, impediscano il completo spiegamento dell’Unamid.Quale futuro dunque per le giovani leve dei campi profughi? Anche i laureati, non hanno lavoro e vivono solo di aiuti umanitari. Imbracciare un fucile è spesso l’unica scelta per sopravvivere. Un panorama di violenza dove le forze dell’Unione Africana continuano a soccombere ai janjawid.E a gettare ulteriore benzina sul fuoco, l’esercito regolare e la polizia sudanesi, considerati dagli sfollati come nemici piuttosto che difensori. La ragione di tutto ciò sono i frequenti arresti indiscriminati fuori dai campi, in base al sospetto che i residenti dei campi appartengano a gruppi armati d’opposizione.In tutto questo, la violenza spesso si sviluppa anche all’interno delle strutture che ospitano i profughi. Ne è un esempio, quello di Kalma. Qui risiedono quasi trenta differenti gruppi etnici, la maggior parte dei quali possiedono armi. Amnesty International ha appreso che molti giovani hanno costituito gruppi di vigilantes su base etnica. Nel periodo fra il 16 e il 22 ottobre 2007, le Nazioni Unite hanno registrato più di dieci casi di scontri a fuoco in questo campo, affermando che molti episodi di violenza sono stati attribuiti al gruppo armato Fur (che comprende dei bambini) contro altre realtà etniche. L’aria condizionata soffia sulle spalle dei potenti. I poveri si uccidono fra di loro per spartirsi quei miseri resti di brandelli di esistenze cui li abbiamo anche noi condannati

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